Storie

Storie di cibo, di folklore, di feste

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Storie di cibo

 

Passavo ore ad osservare la nonna mentre cucinava; le sue dita sottili maneggiavano ogni singolo ingrediente quasi fosse una reliquia e, in dialetto, mi diceva: . Era una vera festa quando mi invitava ad aiutarla, avevo diritto anch’io ad apprendere da quel “memoriale”di cucina. Amavo fare con lei la pasta di casa: la nonna disponeva, sulla spianatoia, la farina di grano duro a fontana e al centro faceva un buco, quindi batteva, sorridendo, le mani vicino al mio viso che, inevitabilmente, si imbiancava un po’. Prendevo il bricco dell’acqua posato sulla grande stufa a legna e ne versavo il contenuto lentamente al centro della montagnella di farina mentre lei impastava (era strano vedere con quanta energia quelle braccia sottili, stanche dall’età e dal lavoro, forgiavano l’impasto). Si fermava solo quando la pasta raggiungeva una consistenza morbida e liscia, a quel punto entravo in azione io:la nonna divideva la pasta il più parti da cui io ricavavo dei cilindretti, che a loro volta venivano tagliati a tocchetti lunghi 4/5 cm., la nonna li infarinava bene e li cavava a quattro dita. I miei occhi ogni volta sgranati come per assistere ad un prodigio vedevano nascere dalle sue mani “i cavatelli”.

La povertà impone di non buttare mai nulla e quando il pane si induriva le nonna lo privava della mollica che io provvedevo a sbriciolare fra le mani; fatto riscaldare dell’olio in una padella veniva versata la mollica per farla indorare, quindi, tolta da fuoco veniva unita a noci triturate. La mistura serviva a condire i cavatelli: i cavatelli con la mollica.

Il sabato pomeriggio per noi bambini era una festa; l’indomani niente scuola pertanto, dispensati dai compiti, potevamo riunirci subito dopo pranzo per giocare; su tavole di legno ci sfidavamo in vere gare di velocità, dai piedi del Saraceno fin giù a valle. Verso le diciassette correvamo a casa di Gino dove la madre, puntualmente, ci rimproverava per gli abiti sporchi ed il sudore ma poi ci dava un bicchiere di latte e una fetta di focaccia con la cannella che solo lei sapeva così squisitamente preparare. Il dolce odore della cannella si diffondeva tanto che noi bambini e i vicoli del paese ne eravamo ebbri.

A Pietrapertosa gli inverni molto rigidi addormentavano le case sotto spesse coltri di neve; di solito, dopo cena, la mia famiglia si scaldava intorno al caminetto: la mamma rammendava, papà affilava un coltello o riparava un cesto e il nonno, tenendo fra le labbra la pipa, di cui ricordo ancora l’odore misto fra tabacco e grappa, intratteneva noi piccoli con storie di megere, delitti e monacelli, che ci intimorivano e, nello stesso tempo, ci, affascinavano. La nonna, invece, con sguardo contrariato per le storielle del nonno sceglieva i fagioli da mettere a bagno in acqua per preparare, l’indomani, la zuppa di fagioli e sedano.

La domenica era un giorno speciale, nessuno lavorava,dopo aver governato gli animali e sbrigato qualche faccenda domestica tutto il paese si riuniva in chiesa per ascoltare la messa e la predica di don Oreste che conosceva la vita di tutti e sfruttava l’occasione per fare qualche bonaria “tiratina di orecchie”. Alle 13.00 si tornava a casa per mangiare gli strascinati con la mollica o il ragù e gli adulti degustavano la rafanata